GIAMPIERO MUGHINI – LIBERO.
Torna il libro sui ’70 che univa intellettuali di destra e sinistra: finiva la stagione dell’odio
Caro Francesco (Borgonovo), quando ieri mi hai telefonato a dirmi che c’è in giro una nuova edizione di C’eravamo tanto a(r)mati (Edizioni Settecolori, pp. 230, euro 20) il libro del 1984 che connota così tanto un momento importante della mia vita e della mia formazione, m’è venuto un tuffo al cuore. D’un colpo ero ringiovanito di trent’anni. Noi e loro, noi che venivamo dalla sinistra e loro che venivano dalla destra, non eravamo più “a(r)mati” quando battevamo a macchina le cartelle di cui è fatto il libro; di certo eravamo molto più giovani di adesso. Non è che dal 1984 siano trascorsi trent’anni: è cambiato il secolo, viviamo in un nuovo millennio, tutto di allora appare remoto dire remoto è dire poco.
E con tutto questo il libro curato da Maurizio Cabona e Stenio Solinas (era stato Solinas, se ricordo bene, a trovargli quel magnifico titolo) non invecchia. È un libro che periodicamente ritorna; non ricordo più se questa di cui stiamo parlando è la terza o quarta riedizione, e ogni volta qualcuno me ne accenna. Poche settimane fa mi ha telefonato il mio amico Enrico Vanzina, uno che sa scegliere i bei libri, il quale mi ha detto di averlo appena letto e con piacere.
UN PASSO AVANTI
Era la prima volta che in un libro convivevano fianco a fianco, e con l’aria di essere molto curiosi gli uni degli altri, trentenni e quarantenni che venivano chi dalla destra e chi dalla sinistra a un tempo in cui queste classificazioni un minimo di senso ce lo avevano ancora. (Oggi non ne hanno più nessuno). Il 1984 ho detto, e dunque a pochi anni di distanza dal tempo in cui se un ventenne passava da piazza San Babila con
addosso un eskimo rischiava di essere aggredito da quelli che portavano gli occhiali Ray Ban, e viceversa.
Dal tempo dell’odio e della separazione antropologica totali. La guerra civile psicotica tra le due opposte fazioni politiche giovanili era durata poco meno di vent’anni, dall’avvio dei Sessanta ai Settanta inoltrati. Molto più che non la guerra civile “calda” durata dal settembre del 1943 all’aprile 1945. Noi e loro divisi da tutto e che smaniavamo di dividerci e odiarci sempre di più.
Adesso quel pessimo film, quella smodata autorappresentazione di se stessi e del proprio Paese, erano finiti.
A raccontare gli anni Settanta, gli anni del furore, Cabona e Solinas avevano messo assieme un bel cast. A testimoniare in nome della sinistra c’era Oliviero Beha, Massimo Cacciari, il mio cuginonemico Massimo Fini, la giornalista Stella Pende, il cantautore Francesco Guccini, l’Armando Torno che adesso presiede alle pagine culturali del Corriere della Sera e altri ancora fra cui il sottoscritto. A testimoniare in nome della destra, e a parte Cabona e Solinas, c’erano Umberto Croppi (poi divenuto notissimo come assessore alla Cultura a Roma), Giuseppe Del Ninno (ancor oggi mio carissimo amico), Enrico Nistri, Paolo Isotta (e ammesso che Paolo testimoni di qualcosa che non sia se stesso e il suo talento).
C’era anche Gianni Rivera, uno che negli anni Settanta s’era comunque fatto notare mica male. C’era anche Giordano Bruno Guerri, anche lui uno che veniva da sinistra e pur tuttavia precocissimo nello scalare altre piste, a cominciare da quei suoi bei libri in cui gli uomini del fascismo storico apparivano finalmente per quel che erano: non certo uomini da due soldi.
Prima di quel libro, e a renderlo possibile, c’erano stati degli incontri, delle strette di mano, delle cene. Non ricordo esattamente quando, ma l’immagine ce l’ho nitida come fosse ieri: io e Beha a cena nella casa dei genitori di Solinas, una casa romana dove l’ospitalità era calorosa e il cibo quanto di più stuzzicante. Un’altra cena la ricordo a casa di Gianfranco De Turris, e quella volta c’erano Cacciari e Marcello Veneziani, e a quella cena andammo rasentando i muri perché era un tempo in cui faceva tutt’altro che chic mostrarsi assieme, “noi e loro”. E poi c’erano stati un paio di dibattiti pubblici, di chiacchiere fatte assieme innanzi a un pubblico.
L’indimenticabile Giano Accame ebbe un ruolo rilevante in quelle occasioni. Ricordo uno scantinato dov’eravamo riuniti in tre o quattro dietro un tavolo e un microfono, e c’erano Francesco Rutelli e Beppe Niccolai.
LA DISTENSIONE
Non prendetemi per vanitoso, ma un qualche contributo a questa distensione di rapporti e curiosità reciproca l’aveva dato un documentario televisivo che avevo fatto per RaiDue, “Nero è bello”. Una specie di reportage dall’interno della “nuova destra”, quella animata da Marco Tarchi, da Solinas, da Del Ninno, da Gennaro Malgieri. Con il mio amico William Azzella (il regista del documentario) penammo le pene d’inferno a mettere assieme il materiale, le testimonianze. Un militante di destra di un liceo romano accettò di essere inquadrato mentre rispondeva alle domande, e purché il suo volto non si riconoscesse: temeva all’indomani di essere picchiato da quelli di sinistra.
Giorgio Almirante rifiutò di parlarci e così l’allora giovane Gianfranco Fini; l’uno e l’altro temevano di finire dentro a un “pastone giornalistico” in cui quelli di destra sarebbero stati descritti come gente con tre o quattro narici. Pino Rauti accettò di essere intervistato ma poi se ne pentì e ci fece mandare una lettera dal suo avvocato in cui disdiceva tutto e minacciava querele. Il dirigente Rai che si occupava del programma mi chiese che cosa fare.
Gli dissi di mandare para para l’intervista a Rauti, che me ne assumevo interamente la responsabilità. A trasmissione andata in onda in prima serata (un tempo della nostra storia televisiva in cui in prima serata c’era roba di questo genere e niente affatto “L’isola dei famosi”), Rauti mi mandò un biglietto in cui mi trattava da “avversario” cavalleresco e leale. Con lui e la sua famiglia siamo sempre rimasti in rapporti cordialissimi, a cominciare da sua moglie di cui mi spiace così tanto che non la incontrerò più.
Storie di un altro secolo, ma pur sempre utili da conoscere e leggere.
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