Versi celeberrimi di Osip ricevono genealogie inaspettate, mentre una prospettiva intimista illumina la storia della Russia: Speranza abbandonata, da Settecolori

 

Quando nei primi anni Venti del secolo scorso Osip Mandel’štam si mostrò a Pietrogrado in compagnia della giovanissima Nadja, pittrice ebrea di belle speranze, ingenua e di salute cagionevole, che aveva conosciuto a Kiev nel 1919, furono in pochi a scommettere sulla solidità della coppia. Si cercò perfino di dissuadere il poeta dal legarsi a una moglie così evidentemente inappropriata. Eppure nessuno meglio di questa piccola donna dall’apparenza inerme sarebbe riuscito nell’impresa di preservare dall’oblio l’opera del poeta inviso al regime, mandandone a memoria i testi proibiti e battendosi per decenni, con titanica forza d’animo, per la sua riabilitazione.
Corredata da un inappuntabile apparato di note a piè di pagina, dalle considerazioni introduttive di Paolo Nori e da quelle conclusive di Valentina Parisi, vede ora la luce la versione integrale del secondo volume di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza abbandonata (traduzione di Valentina Parisi e Marta Zucchelli, edizioni Settecolori, pp. 880, € 34,00), che fa seguito alla riedizione della prima fatica autobiografica (Speranza contro speranza), uscita due anni fa presso lo stesso editore (la traduzione era quella di Giorgio Kraiski datata 1971). Lo status di autrice guadagnato con la prima testimonianza, incentrata sugli ultimi quattro anni di vita del massimo poeta del Novecento russo, si consolida qui in identità autonoma, ormai inoppugnabile, e la sua tempra di memorialista emerge in tutta la sua specificità.
Il discorso retrospettivo procede per ondate non cronologiche, e ricalca tempi e luoghi del vivere insieme dei Mandel’štam, le città e le stanze da loro abitate. Nadja torna a più riprese su certi componimenti enigmatici e sugli impulsi che li sottendono: è il caso di A Pietroburgo c’incontreremo di nuovo, con la sua straordinaria profeticità, o dei Versi sul Milite Ignoto, «oratorio dedicato alla guerra futura», col tema della co-agonia, della morte in aria degli aviatori e l’anelito all’autoannientamento. Racconta il ritrovamento fortuito di poesie credute perdute (come No, non è emicrania, del ’31) e chiarisce le strategie di costruzione dei cicli e dei libri – risposta tutta personale di Osip alla smania per la «forma lunga» che dilaga nella Russia degli anni Venti (le stesse memorie-fiume dell’autrice non germinano forse da quell’istanza?). In una esegesi tutta domestica e anti-canonica, Nadja attribuisce genealogie inaspettate a versi celeberrimi, escludendo fonti fermamente sostenute dai critici e rivendicando retroscena più «familiari» per la loro origine.
La visuale ravvicinata e intimista si raccorda senza attriti con la prospettiva epocale su cui il racconto si allarga, facendosi coraggioso affresco di intere decadi e interrogazione a ritroso sui fenomeni che hanno predisposto l’intelligencija russa al sistema del Terrore staliniano. Più in generale si intravede, in queste pagine, quel tratto fatale del popolo russo che ciclicamente lo espone, inerme o complice, alle tragedie della Storia, e gli piega la spina dorsale fiaccandone la reattività: non senza fosche premonizioni sulle efferatezze che attendono la Russia futura («quando stringeranno di nuovo le viti»), su cui l’autrice, che scrive all’inizio degli anni Settanta, non si fa illusioni.
L’essenza di quel tempo feroce è diluita in una narrazione ponderosa, minuziosa, in una prosa piana mai esornativa o museale, aliena da ogni velleità di stilizzazione: «limpida e spietata», come ha scritto Iosif Brodskij. Ciò che conta davvero è la volontà di ristabilire la verità, non solo sull’uomo e sul poeta, sui suoi versi e su tutti i suoi scritti (comprese le lettere o i testi andati irrimediabilmente perduti), ma anche sull’intera società russa di quegli anni. Di qui lo sforzo costante verso la puntualizzazione: Nadežda rintuzza maldicenze e pettegolezzi, sfata leggende improbabili, polemizza con critici e storici, demolisce illazioni poco perspicaci di altri memorialisti o ne mette in dubbio l’attendibilità e la buona fede (è il caso di Georgij Ivanov e Irina Odoevceva). Abbatte idoli a suo parere infondati (Maks Vološin tra gli altri) o si prende il gusto di sferrare stoccate inattese, capaci di rendere la pariglia ai colpi bassi ricevuti, all’amaro delle tante defezioni. Di Maksim Gor’kij ricorda che all’inizio degli anni Venti, in tempi di ristrettezze e razioni, quando a nome di Mandel’štam l’Unione dei Poeti chiese per Osip un maglione e un paio di pantaloni, il grande «intercessore e protettore» dei letterati «gli concesse il maglione ma i pantaloni li cancellò di suo pugno» (e quando Gumilev gli diede il suo paio di riserva, Mandel’štam le giurò che «andare in giro nei pantaloni di Gumilev lo faceva sentire insolitamente forte e coraggioso»).
Ben conoscendolo dal suo interno, l’autrice punta il dito contro l’apparato editoriale sovietico, quell’esercito di redattori di ogni grado che presiedeva alla catena di trasmissione delle direttive letterarie dei vertici e raggiungeva la massa dei lettori, facendo in modo che contenuti agit-prop si trasformassero in «raccontini puliti» (senza tacere il ruolo di figure chiave quali Samuil Maršak, ad esempio).
Un posto d’onore spetta in queste pagine a Anna Achmatova, la più affidabile alleata nella missione di custodire il retaggio poetico di Osip. Pur senza risparmiarle qualche affondo tutt’altro che lusinghiero, Nadja ritesse tutto il viluppo di eventi e intrecci testuali che costituiscono il tema «Mandel’štam e Achmatova», e scrutina con occhio implacabile il capolavoro della poetessa Poema senza eroe, tutto percorso da una «forza stregonesca» e contiguo, per impulso interiore, al Rumore del tempo. Rievoca un’incomparabile variante in prosa del Prologo di cui non è rimasta traccia, «opera acuta e caustica», chiaroveggente «sogno nel sogno» ascoltata a Taškent nell’estate del ’42, da Achmatova data alle fiamme nella stufa qualche anno dopo, per timore che venisse usata contro di lei, e mai più ricostruita. E tuttavia rimprovera all’autrice di non aver esplicitato – con fare a suo dire evasivo – la presenza di Mandel’štam all’interno di quel poema.
Tra le istantanee che riemergono dalla memoria, una visita a Marina Cvetaeva nel trambusto della vigilia della sua partenza per l’Occidente: in quell’occasione Nadja percepisce distintamente l’ostilità della poetessa di Tentativo di gelosia – rivolta a lei proprio in quanto «moglie». Si rammarica tuttavia di non averla incontrata ancora dopo il suo rientro in Unione Sovietica nel ’39 e la riconosce come dedicataria di un preciso corpus di liriche di Osip.
Il tributo di dolore pagato da Nadežda Mandel’štam all’epoca è inimmaginabile. Eppure il sentimento complessivo che affiora dalla scrittura è la gratitudine, nella certezza che il suo passaggio sulla terra non sia stato invano. Muovendosi su un terreno scivoloso, costantemente sospeso tra accettazione e indignazione, tra movenze pacate e increspature di sdegno, l’autrice si sdebita col suo tempo regalandocene una cronaca dimessa, a tratti epica, più spesso rabbuiata, sempre illuminata da un senso di responsabilità pervicace, incrollabile. E dalla fede che i lettori di Mandel’štam del futuro sarebbero stati moltitudine.