Arriva in libreria la testimonianza estrema e poetica di Nadezda Chazina, compagna del poeta russo assassinato nel 1938

Due anni fa, le edizioni Settecolori rimettevano sugli scaffali delle librerie italiane Speranza contro speranza – la prima parte delle memorie di Nadežda Mandel’štam – in un’edizione che riproponeva la traduzione, già uscita in un paio di occasioni, che Giorgio Kraiski aveva preparato all’inizio degli anni Settanta. Oggi, le stesse edizioni pubblicano Speranza abbandonata, la seconda parte di queste memorie, il cui titolo originale russo è Secondo libro, ma che uscirono negli Stati Uniti come Hope Abandoned (l’insistenza sul termine viene dal fatto che il nome dell’autrice, in lingua russa, significa proprio “speranza”). Si tratta della prima traduzione integrale italiana del testo, una versione stralciata del quale era già comparsa negli anni Settanta per i tipi di Garzanti, nella traduzione di Serena Vitale. E proprio dalla traduzione vorrei cominciare per parlare di quest’opera mastodontica, stratificata e rapsodica: per elogiare il lavoro delle due traduttrici, Valentina Parisi e Marta Zucchelli, alle quali è stato consegnato un monumento di quasi 900 pagine, scritto in modo meno ordinato e razionale dell’Epoca e i lupi.
Là, nel primo volume, Mandel’štam aveva raccontato, ovviamente concedendosi divagazioni e momenti di riflessione, i sei terribili anni della persecuzione che lei e il marito subirono, tra esili, delazioni, interrogatori, impossibilità di pubblicare e, infine, la deportazione e la morte del più grande poeta che la lingua russa abbia avuto nel Novecento; qui, nel secondo, la narrazione si fa più ampia, e comprende, grossomodo, gli anni che vanno dal 1919, ovvero il momento in cui Nadežda e Osip Mandel’štam si conobbero, al 1934 – l’anno in cui iniziò davvero l’epoca dei lupi. Si tratta di una narrazione frammentaria, colma di episodi che a volte si ripetono e di citazioni fatte a memoria, come se Nadežda Mandel’štam, in questo secondo libro, si fosse concessa delle libertà e avesse lasciato che la memoria fluisse senza arginarla mai. Così, parte del lavoro di chi ha tradotto questo volume è stata, senza dubbio, dedicata a mettere ordine nell’infinità di nomi, versi e opere che l’autrice cita, a volte senza avere sott’occhio l’originale, e in generale a orientare i lettori, siano pure esperti di cose di Russia, nell’infinito mare di questioni, fatti, vicende, contraddizioni e dolori di cui è fatto il libro.
C’è però una grande differenza tra il primo e il secondo volume: là, nel primo, Nadežda parlava pochissimo di sé, e quando lo faceva era per mettersi in relazione con Osip – ora raccontando del modo in cui egli componeva versi, ora della sua vocazione a mantenerne viva la memoria; qui, in Speranza abbandonata, Nadežda mette al centro sé stessa, e racconta gli anni della Rivoluzione e dell’ascesa di Stalin guardandoli dal punto di vista di una persona che, pagato il suo tributo alla memoria del marito ucciso, osa finalmente intitolare il primo capitolo Io.
Quelle che seguono sono centinaia di pagine vertiginose, in cui riverbera la storia di un Paese e quella di un’anima che ha «deciso che bisogna urlare», e che perciò punta il dito contro coloro (scrittori, politici, ex amici) che hanno finito per rinunciare alla propria «libertà interiore» per diventare i cani del potere – cosa che né lei né Osip hanno mai pensato di fare e che hanno pagata cara. Ma proprio per questo, le memorie di Nadežda non sono una semplice testimonianza: sono piuttosto una lunga disamina su cosa sono o diventano gli esseri umani al cospetto della Storia, del potere e del dolore. I ritratti che fornisce, nel suo modo burbero e implacabilmente onesto, sono per questo memorabili: si leggano le pagine che dedicò all’amica di una vita, Anna Achmatova, e alla loro sorellanza, ma anche alla rabbia e alla delusione che la presero quando colse una mancanza di rispetto nei confronti di Osip tra l’epigrafe e i versi del Poema senza eroe.
«Nell’appartamento di Achmatova dove sono stata, c’erano molte statuette di porcellana. La mia anima di maiolica non le sopportava»: ecco il tono, spiccio e luminoso, con cui è scritto questo libro, che è senza alcun dubbio, insieme al suo gemello, uno dei memoir più potenti e significativi che il Novecento ci abbia tramandato.