I ricordi dell’autrice russa Nadežda Mandel’štam fanno rivivere l’opera e lo spirito del marito Osip, poeta vittima del regime sovietico. Ironia e leggerezza nel pensare alla morte

Ci sono libri che t’impegnano più del necessario. Ti ci immergi con trasporto, li molli sfiancato, salvo poi tornarci su di buona lena, con rinnovato entusiasmo. E intanto non puoi fare a meno di riempirli di segni, chiose, piccoli sbreghi. Impieghi settimane a finirli. Forse perché eccessivamente ponderosi, forse per lo strazio che trasuda da ogni pagina, forse vorresti solo che non finissero mai.
Mi capitò tempo fa leggendo Il passato e i pensieri di Aleksandr Herzen. Più di recente l’ho sperimentato con Speranza abbandonata di Nadežda Mandel’štam. Mi chiedo se tale morboso interesse per la Russia e i suoi artisti perseguitati non ubbidisca a una coazione dettata dai tempi. Al netto delle vistose differenze, infatti, i libri in questione hanno qualcosa che li assimila. Si tratta di memoir scritti a quasi un secolo di distanza l’uno dall’altro da due moscoviti che avevano ben poco in comune: Herzen era un ricco possidente, Nadežda Mandel’štam un’ebrea senza arte né parte. Entrambi subirono sin dalla prima giovinezza le vessazioni di regimi ottusi e sanguinari: poco importa se a capo del primo ci fosse un monarca crudele e del secondo un satrapo paranoico. Sia un sistema che l’altro erano molto ben organizzati, e quanto mai inclini ad accanirsi su individui inermi, inoffensivi, insofferenti all’autorità, traboccanti di vita e di genio. Herzen ebbe la lungimiranza e i mezzi per fuggire: per non soccombere, si inflisse un esilio senza ritorno. A Nadežda andò molto peggio. Condivise gran parte della sua esistenza stracciona e randagia con i massimi poeti russi del XX secolo: Osip Mandel’štam, il marito, Anna Achmàtova, l’amica del cuore, l’ombrosa Marina Cvetaeva e lo sfuggente Boris Pasternak.

Gli orrori della censura
Per noi è quasi impossibile immaginare i tormenti che il regime sovietico inflisse a questa generazione di poeti straordinari. A chi oggi si straccia le vesti sulle nostre censure da operetta (insopportabili, certo, ma comunque da operetta) bisognerebbe raccomandare la lettura dei due volumi di Nadežda Mandel’štam: Speranza contro speranza e Speranza abbandonata. Così, solo per ricordare a sé stessi che il potere è una cosa seria. Quando sceglie di perseguitarti lo fa con ostinazione implacabile. Se capisce che non può piegarti, prima ti cancella poi ti uccide. In silenzio, senza enfasi, dopo essersi assicurato la protezione di una coltre di omertà, complicità e intimidazione. «Verso la metà degli anni Venti» scrive Nadežda a proposito del marito «la stampa centrale chiuse la porta in faccia a Mandel’štam, perché non si era “ristrutturato” — in questo campo siamo noi a detenere il primato, non i cinesi. Nel mondo “nuovo” un individuo che non solo non fosse in grado, ma — horribile dictu! — non intendesse sottoporsi a tale ristrutturazione, rimaneva col cerino in mano (macché cerino! Non avevamo neanche quello)». Ed era solo l’inizio. Da quel momento in poi Mandel’štam fu una specie di dead man walking, uno spettro vagabondo assediato da una falange di sbirri, falsi amici e delatori. Fino alla fatidica notte del 1937 in cui vennero a prenderlo. A quel punto gli restarono solo il lager e la fossa comune. È curioso che tutto questo sia avvenuto a poco più di un secolo di distanza dall’omicidio di Aleksandr Puškin. È chiaro che i russi non sanno prendersi cura dei loro poeti più grandi.

Memoria infangata
Nadežda morì nel 1980, quarantadue anni dopo il marito. Per ben due decenni — in quanto vedova di un reietto e vestale della sua opera proibita — fu bandita dal consesso civile. L’aria era tornata appena un po’ più respirabile quando lei, con un piede già nella vecchiaia, si mise a scrivere le sue memorie con ostinazione encomiabile, e con il preciso intento di dare conto del suo sodalizio con Mandel’štam. Il risultato non è solo un documento di formidabile interesse storico, e nemmeno un tardivo risarcimento alla memoria infangata del marito e dei suoi geniali sodali, ma un’opera letteraria maestosa e conturbante.
Come scrisse Iosif Brodskij, un altro grande poeta russo in esilio: «Nadežda Mandel’štam non mirava a essere tanto importante, né tentava più semplicemente di prendersi una rivincita sul sistema. Per lei era una questione privata, una questione che coinvolgeva il suo temperamento, la sua identità e ciò che aveva plasmato quell’identità». Il breve omaggio postumo che Brodskij dedicò a madame Mandel’štam è pieno di folgorazioni. A cominciare da quella che identifica nell’opera di Nadežda un’eco lontana di quella del consorte trucidato. Partendo dall’assunto che la poesia viene sempre prima della prosa, Brodskij intravede nell’autobiografia della moglie superstite un’elaborazione delle liriche del marito defunto. «La limpidezza e la spietatezza delle sue pagine, se da una parte rispecchiano il carattere della sua mente, dall’altra sono anche inevitabili conseguenze stilistiche della poesia che aveva formato il suo spirito. Sia nel contenuto sia nello stile i suoi libri non sono che un post scriptum a quella suprema versione del linguaggio che è essenzialmente la poesia e che lei aveva assimilato in sé, come carne della propria carne, imparando a memoria i versi del marito».

Terrore e silenzio
Ciò che mi dispiace è di non disporre delle competenze e degli strumenti necessari per parlarvi in modo appropriato di Speranza abbandonata. Non so il russo, ignoro la maggior parte dei personaggi più o meno eminenti che il libro chiama in causa. Figuriamoci, conosco a stento la differenza tra simbolismo e acmeismo, le due correnti poetiche in conflitto in quegli anni prodigiosi. Insomma, non sono uno slavista. Se lo fossi forse potrei dare conto delle mille affascinanti divagazioni della signora Mandel’štam, dei suoi giudizi severi e degli accessi di malumore. Non mi resta che sfruttare la mia ignoranza di profano per evocare un mondo oscuro in cui l’arte è stata dichiarata fuori legge e la paura ha preso il sopravvento sulla speranza. Uno stato di cose che costringe questo cenacolo di artisti a comportamenti a dir poco dissennati: se da un lato la clandestinità inflitta dal regime li obbliga a una circospezione che tracima nella paranoia, dall’altro è come se contribuisse a liberarli. Persino il terrore che li perseguita può essere un’opportunità. Almeno è un sentimento genuino, scevro di ipocrisie. «In epoche come quella che abbiamo vissuto, e alla quale non siamo ancora del tutto sopravvissuti, la paura ha una funzione positiva. Una volta io e Achmátova ci facemmo l’un l’altra una confessione: il sentimento più potente che avessimo mai provato, più forte dell’amore e della gelosia, più forte di ogni emozione umana, era la paura e i suoi derivati — ovvero la nauseante coscienza del disonore, della dipendenza, della completa impotenza». Insomma, la paura è una minaccia talmente opprimente da infilarsi in ogni interstizio della vita: «Il nostro udito era sempre all’erta, non riposava mai. Tendevamo l’orecchio allo strepito delle auto di passaggio — va avanti o si ferma qui? — allo scalpiccio di passi per le scale — saranno mica stivali militari? — al ronzio dell’ascensore (ancora oggi sento una fitta al cuore, udendo lo scricchiolio di quelli vecchi), poi ci sarà uno squillo e qualcuno busserà…». Per contro, la paura agisce sull’idea del tempo, alterandola e annichilendola: «Quando vivi in uno stato di costante terrore, tendendo l’orecchio alle macchine e al campanello, cominci ad avvertire ogni secondo, ogni minuto. Il tempo si sfilaccia, acquista peso e grava sul petto come piombo. Non è una condizione psicologica, bensì fisica, e si aggrava soprattutto di notte. I minuti si dilatano, mentre gli anni fuggono a una velocità inaudita, senza lasciare dietro di sé niente, se non un vuoto abissale».
Eppure, sembra suggerire Nadežda, niente è più propizio alla vena di un poeta che questa atmosfera di cupa intimidazione. «Mandel’štam non dubitò mai di questa sua vocazione, e la accettò con la stessa leggerezza con cui in seguito, accettò il proprio destino. Essa era il risultato della quieta fiducia che nutriva nei confronti del lavoro poetico. Un’attitudine che faceva infuriare gli scrittori veri, i ministri della letteratura. (…) Persino io, che di certo non brillavo per serietà e vivevo a cuor leggero, restavo meravigliata di fronte alla sua leggerezza. E intanto il tempo lavorava contro di noi». Niente è più ostile alla poesia della cultura egemone. «Una cosa l’ho capita», scrive Nadežda, «bisogna guardarsi dagli amanti delle “arti” e della “cultura”. Sono spaventose forme di inganno».
In virtù di questo non stento a definire quella formata dai coniugi Mandel’štam e dai loro sodali come una vera e propria comunità freak. Il nomadismo da globetrotter li induce a un tenore di vita scombinato e promiscuo. Le privazioni e il terrore li portano ad abbracciare ogni sorta di eccentricità. E il più irregolare di tutti, il più incauto e spericolato, è lui, Osip Mandel’štam, che vive dei suoi versi e di tutto ciò che è in grado di suscitarglieli. «Penso che Mandel’štam sia riuscito a sradicare il tempo, perché possedeva il dono del gioco e della gioia. Ma in nessun altro ho visto una giocosità e una gioia simili. Quando uscì dalla mia vita, io — che ero morta a mia volta — vissi aggrappata alla gioia che zampillava dai suoi versi e al suo irrevocabile rifiuto del suicidio». A colpire è la mancanza di risentimento: «Aveva già capito che l’ironia è l’unica arma degli inermi». Inerme, sì, inerme al cospetto di tante inutili efferatezze. «La crudeltà non appartiene a un vero artista. Non ho mai capito come Majakovskij, che senza dubbio lo era, abbia potuto dire cose tanto brutali».

Ritratto del poeta di fronte alla morte
In un mondo organizzato intorno a un’ideologia settaria e repressiva, a un poeta non restano che la clandestinità e la dissimulazione. È Mandel’štam stesso a confessarlo in una prosa amorevolmente conservata dalla moglie che in Unione Sovietica verrà pubblicata solo nel 1988: «Non ho manoscritti, né taccuini, né archivi. Non ho nemmeno una calligrafia, perché non scrivo mai. Sono l’unico, in Russia, che lavora a voce, mentre intorno una canea di farabutti scrive. E sarei uno scrittore, io? Andate al diavolo, imbecilli!». È solo uno dei tanti preziosi insegnamenti che Nadežda non ha potuto fare a meno di assimilare: «Già allora», scrive, «probabilmente influenzata da Mandel’štam, ero del tutto indifferente alla publicity e all’impegno. Mandel’štam era fermamente convinto che la poesia fosse una faccenda privata e in questo stava il segreto della sua forza: quando si scrive per sé stessi, rispondendo a sé stessi, si presta orecchio solo all’essenziale e a ciò che è profondo». E cosa c’è di più profondo e essenziale della morte? Stando a quanto ci dice a più riprese Nadežda, il marito ne era ossessionato. E non nel modo fosco di chi sa di avere i giorni contati, e nemmeno con il fatalismo del filosofo ellenistico, ma con l’ironica compostezza di chi ha ben chiaro in testa l’approdo finale di ogni esistenza. «Uomo di estrema sensibilità, Mandel’štam aveva sempre avuto un’intensa percezione della morte — quasi fosse costantemente presente nella sua vita. E questo non sorprende — la poesia, ancor più se filosofica, è una preparazione alla morte. Solo così intesa la morte accoglie in sé tutta la pienezza della vita, la sua essenza e la sua concreta ricchezza. La morte rappresenta il coronamento della vita». Se è la morte a conferire senso alla vita, non c’è spazio per la vanità, e per nessuna forma di permalosità artistica. «La caratteristica di Mandel’štam è quella di non aver mai combattuto per il proprio posto nella vita». E allora per cosa? Per un obbiettivo molto più sano e modesto: «In Mandel’štam non c’era traccia di ascetismo, quanto ai desideri, invece, ne aveva a volontà».

Guai a sentirsi il migliore
Non deve sorprendere che una tale visione della vita si accompagni a una sostanziale umiltà e scanzonatezza. «Dal canto suo era incapace di millantare, perché viveva nella costante certezza di essere peggiore degli altri e avrebbe sinceramente voluto essere come tutti: agli altri andava tutto liscio e a lui no — o meglio gli altri sapevano stare zitti, e lui no…». Il bello è che tale idea di sé non lo spronasse a migliorarsi, né a stravolgersi. Come se gli piacesse crogiolarsi nell’idea di essere il peggiore di tutti… «Tale ammissione era assolutamente sincera, non c’erano dubbi in proposito, ma mi ha sempre divertito il fatto che, a dispetto della percezione che aveva di sé, non volesse minimamente cambiare e non ci pensasse nemmeno a dedicarsi all’autoperfezionamento».

Inferno e «joie de vivre»
A colpirmi è l’insistenza con cui Nadežda torna ogni tre per due sul peculiare atteggiamento del marito, capace di distinguerlo da qualsiasi altro poeta alle prese con le medesime miserie morali e materiali. «Lui aveva qualcosa che non ho notato in nessun altro, ed è giunto il momento di dire che non erano la spensieratezza o la superficialità a distinguerlo dagli individui “perbene” che ci circondavano (…), bensì una gioia infinita e perfettamente disinteressata. Tant’è vero che non aveva bisogno di nulla, perché questa gioia era sempre con lui. Tutti aspiravano a qualcosa, lui a niente. Era vivo e colmo di gioia. E lo è stato fino all’ultimo giorno della nostra vita in comune. Solo il carcere e il lager sono stati in grado di soffocarlo, di distruggere in lui la gioia e la vita». Mi chiedo se un ritratto del genere non valga per qualsiasi poeta di prim’ordine: da Puškin ad Apollinaire. Comunque sia, è interessante notare come la sua idea di mondo spinga Mandel’štam a diffidare di Dostoevskij e della sua contagiosa tetraggine: «Ho l’impressione che Dostoevskij gli sembrasse il ricettacolo di ogni possibile demone. Per questo, nella sua ricerca di un rapporto più luminoso con gli altri, Mandel’štam ha preferito ignorare le intuizioni profetiche del grande deportato. Le nostre generazioni si dividevano in seguaci di Tolstoj e di Dostoevskij. Mandel’štam gravitava in direzione di Tolstoj, piuttosto che in quella di Dostoevskij, ma in generale era lontano da entrambi, perché sentiva in loro degli eresiarchi».

Solo avviandomi alla fine, lasciandomi alle spalle le ottocento e passa pagine di questo libro formidabile ho finalmente capito dove Brodskij volesse andare a parare. In effetti, le frasi di Nadežda sembrano concepite per fare da appendice alle poesie e alle prose del marito, come se lei avesse trascorso gli atroci anni della vedovanza a gustarle e a rielaborarle. Una simbiosi postuma che, per quel che ne so, non ha eguali nella storia della cultura europea.

Post scriptum
Mi sia consentita un’ultima notazione di carattere editoriale. In un’epoca come la nostra in cui ogni giorno vengono pubblicati un numero esorbitante di libri destinati al macero — sciatti, mal tradotti, privi di apparati adeguati e zeppi di refusi — bisogna rallegrarsi che una piccola realtà come Edizioni Settecolori abbia saputo allestire un manufatto così bello: rilegatura di classe, carta preziosa, traduzione impeccabile, paratesti accurati ma scevri di pedanterie accademiche. Così si fanno i libri.