DI GIUSEPPE SCARAFFIA – TUTTOLIBRI – LA STAMPA – 8 LUGLIO 2023

INCARICATO DA GALLIMARD DI RICOSTRUIRE LA SCONFILTA DI FRANCESCO I CONTRO CARLO V A PAVIA SI SOFFERMA SULLE VICENDE INDIVIDUALI O SUI DETTAGLI DEGLI EQUIPAGGIAMENTI E DEI VIVERI

«Pa-pà è in prigione! Pa-pà è in prigione!» ripeteva ballando la figlia più piccola di Jean Giono, entusiasta della nuova avventura del padre. A mandarlo dietro le sbarre, nel settembre 1939, era stato un volantino anonimo che riportava alcune sue frasi contro la guerra. Quando era finalmente uscito, aveva capito che se voleva sopravvivere, doveva fare soltanto lo scrittore.
Alla fine della guerra, nella torbida atmosfera dell’epurazione, le invidie dei colleghi per la sua popolarità si erano scatenate contro di lui. Giono, che aveva nascosto e ospitato ebrei, resistenti e comunisti, era venuto a sapere che degli esponenti della Resistenza chiedevano a gran voce il suo arresto o perfino la sua fucilazione. Era stato accusato a torto di aver scritto articoli filotedeschi e di essersi schierato a favore dei nazisti e dei collaborazionisti. In realtà Giono, come molti altri colleghi, da Colette a Cocteau, aveva pubblicato pochi pezzi esclusivamente letterari su giornali collaborazionisti ed era rimasto ben lontano dall’estrema destra legata ai tedeschi.

Giono sapeva che l’avrebbero arrestato. Quando la figlia lo aveva scongiurato di scappare, aveva risposto gentilmente: «Figlia mia, dove vuoi che vada? Vuoi che mi metta a correre? Che vada a nascondermi dietro un albero? Vuoi davvero vedermi fare così? Vogliono arrestarmi, mi arrestino pure. Non sarà la prima volta. Nell’attesa, ho ancora un po’ di tempo per lavorare. Chiudimi la porta!».

Alla fine lo scrittore era stato liberato con l’obbligo di risiedere lontano da casa e l’interdizione di pubblicare e di avere un conto in banca: la miseria, ma anche la libertà. Intanto in lui si era operata una trasformazione definitiva; dopo essere stato ancora una volta ingiustamente incarcerato era passato dal culto estatico della natura a quello di una storia filtrata dal vento di un romanticismo volutamente inattuale.

A questa svolta appartiene anche Il disastro di Pavia, uno dei pochi testi di Giono scritti su commissione. Glielo aveva chiesto Gaston Gallimard per la collana «Trenta giorni che hanno fatto la Francia» e l’argomento solleticava l’amore per l’Italia dello scrittore di origini piemontesi. Per l’autore non c’erano dubbi: «La storia ha senso solo retrospettivamente e per chi gliene vuole dare uno; ma questa volontà è solo una frivolezza di un altro tipo». A lui interessava davvero solo quella che gli storici accademici chiamavano sprezzantemente la petite histoire. In quel periodo, dominato dalla figura dell’intellettuale impegnato, Giono non aveva esitato a dichiarare: «Non credo al ruolo sociale dello scrittore». Per lui tutti, dal più umile al più grande, avevano la responsabilità di fare bene il proprio lavoro; per lo scrittore era lo stesso, ma, «se si impegna, in quel momento diventa un uomo politico, e non è più uno scrittore».

A attrarlo non era solo la sfida di misurarsi con un tema reale, ma anche il fatto che si trattasse di una sconfitta, almeno per la Francia. Come se non bastasse, ad avvicinarlo al brillante re francese, Francesco I, c’era anche l’esperienza comune della prigionia. Ma anche l’introverso imperatore di Spagna, Carlo V, aveva qualcosa in comune con lui: la gotta.

Per non travisare la realtà, era andato due volte a Pavia, e aveva consultato tutte le memorie esistenti. Giono diffidava delle metodologie storiciste: «Non ci sono idee nella battaglia di Pavia, soprattutto niente preconcetti o idee generali». Nelle sue pagine le storie sostituivano la Storia «con la S maiuscola», preferiva soffermarsi sulle vicende individuali o sui dettagli degli equipaggiamenti e dei viveri. Il paesaggio che prima l’aveva tanto assorbito veniva relegato ai margini.

Al contrario degli accademici, Giono sapeva che non bisogna guardare al passato con gli occhi del presente. Non sopravvalutava il coraggio: «Allora si era valorosi come oggi si è automobilisti». Invece di esaltare il patriottismo metteva in risalto la folta presenza di mercenari tedeschi, i lanzichenecchi, sapeva che l’unica aspirazione che accomunava quei soldati era il denaro. Come provano i frequenti passaggi dei mercenari da un’armata all’altra. Considerava le stragi con l’occhio di un’epoca in cui, notava ironicamente, «si massacra tranquillamente».

Il risultato? Una magnifica galleria di ritratti e di episodi in cui ognuno, dal più grande al più piccolo, dagli uomini agli animali, ha diritto alla sua attenzione. È un’illuminante ironia: «La confusione della giornata deriva dal fatto che nessuno sa cosa deve fare; è quello che succede quando si è persuasi dell’inutilità di quello che si fa». È il divertimento dell’autore davanti alla beffa del destino che trasforma il favorito, Francesco I, in un prigioniero. Il resoconto della cattura del re sembra un racconto di caccia. I soldati di Carlo V che incalzano lo sconfitto combattono, spiega, per il piacere di combattere. Il cavallo del francese viene abbattuto a colpi di archibugio, ma il sovrano, uno dei pochi in grado di rialzarsi da solo malgrado il peso dell’armatura, continua a combattere. Solo la folla dei nemici lo salva dai colpi degli archibugieri che riescono a uccidere solo dei commilitoni. Alla fine, incalzato da ogni parte, crolla a terra dopo avere steso non pochi aggressori. Per la seconda volta viene salvato dal numero degli spagnoli che vorrebbero strappargli dei pezzi di armatura per potere provare di averlo ucciso. Quando alla fine viene faticosamente liberato, è sanguinante e seminudo. Per salvarlo, il viceré di Napoli deve uccidere quattro spagnoli che vorrebbero finirlo. Quando finalmente sopraggiunge, il capo delle forze nemiche, il Connestabile di Borbone, malgrado il suo rancore verso Francesco I, pensa solo a baciare la mano al sovrano vinto.

Con la sconfitta della Francia finiva un’epoca, ma per Giono la gigantesca, caotica macchina della battaglia serviva soprattutto a fare emergere il carattere dei combattenti. Al momento della pubblicazione, nel marzo 1963, era scomparsa l’epigrafe di Pascal: «Niente ci piace come la battaglia, ma non la vittoria».

IL DISASTRO DI PAVIA DI JEAN JONO

La Stampa Tuttolibri 8 Luglio 2023